Aggiornamenti sulla protezione da SARS-CoV-2

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 25 aprile 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Anche se siamo neuroscienziati e fra noi gli esperti di virologia si sono prevalentemente occupati di patologia virale del sistema nervoso centrale, il rapporto di fiducia con colleghi, studenti e tanti altri visitatori abituali del nostro sito, che ci contattano complimentandosi per il rigore della nostra comunicazione scientifica, ci ha eletto a riferimento in questa pandemia da SARS-CoV-2. Le continue richieste di spiegazioni, pareri e opinioni su fatti e problemi di attualità, ci hanno indotto a raccogliere in una risposta collettiva la sintesi di quanto ciascuno di noi sta proponendo alle domande che riceve personalmente.

Una prima questione da affrontare è l’effettivo valore delle misure di prevenzione che stiamo quotidianamente ponendo in atto (distanziamento interpersonale di almeno un metro, lavarsi le mani frequentemente, ecc.) e, soprattutto, l’apparente discordanza fra esperti consultati separatamente.

Noi vogliamo sottolineare che le deduzioni che si compiono a partire dai dati certi sulle modalità di contagio, e le conclusioni che si traggono, si possono in gran parte riportare a due diversi atteggiamenti mentali:

 

1) mi pongo di fronte alla questione come se fosse un esercizio accademico da eseguire attenendosi scrupolosamente ai dati teorici, al fine di ridurre la possibilità di contagio in circostanze in cui c’è una probabilità non definita di trovare il virus sulla propria strada;

 

2) mi pongo di fronte al problema con l’intento di avere la certezza di evitare il contagio di una malattia potenzialmente mortale, nell’ipotesi che sicuramente nell’ambiente che frequento è presente il virus.

 

1. Esercizio accademico su dati teorici presuntivi. Nel primo caso, si comprende come le misure generiche suggerite dall’OMS per la popolazione generale[1] siano soddisfacenti e possano ritenersi sufficienti. Infatti, se consideriamo SARS-CoV-2 un virus respiratorio che si trasmette solo attraverso l’emissione nell’aria delle goccioline di Flügge contenenti particelle virali vive attraverso tosse, starnuti e atti del respiro, e se si ritiene che solo se le mani siano contaminate da secrezioni ci sia il rischio di portare materiale infettante a contatto con le mucose vulnerabili, allora basta proteggersi con una mascherina e dei guanti monouso, tenendosi a un metro di distanza da altre persone come quando, per esempio, si va al supermercato.

Se si ritiene, come si presumeva dallo studio di altri coronavirus, che il microrganismo muoia subito nell’ambiente esterno, si deve temere solo il contatto con oggetti e superfici contaminate di recente da materiale patologico e se all’ingresso del supermercato sui guanti di ciascuno e sull’impugnatura del carrello si cosparge il “gel sanificante”, allora si elimina ogni rischio. Sempre in questa ottica, proteggersi con la mascherina chirurgica può essere sufficiente, se la si porta tutti. Perché, nell’ipotetico affetto ma inconsapevole per sintomi lievi, la barriera della mascherina riduce quantitativamente l’emissione col respiro dei virus che, seppure riuscissero in parte a percorrere un metro, troverebbero un’altra mascherina sul loro percorso per giungere alle mucose della persona più prossima esposta al contagio.

E, se per una volta non si sono calzati i guanti o togliendoseli si è toccata la loro superficie contaminata, c’è il rimedio di lavarsi accuratamente e frequentemente le mani; cosa che vale ancor di più per chi è risultato positivo al coronavirus o, presentando sintomi di malattia delle prime vie respiratorie, teme di essere affetto da COVID-19.

Avendo questa cura igienica delle mani, completata dall’abitudine di cospargerle con i prodotti sanificanti nell’intervallo fra un lavaggio e l’altro, si riduce al minimo la possibilità che, toccandosi gli occhi inavvertitamente, si consenta la penetrazione congiuntivale del virus.

Sempre nel caso del puro esercizio accademico, la frequente pulizia delle superfici sarebbe decisiva nell’allontanare ogni preoccupazione.

 

2. Certezza di evitare il contagio di una malattia potenzialmente mortale. Se mi pongo nell’ottica di raggiungere la certezza di evitare il contagio in un ambiente in cui sicuramente è presente il virus, cambia del tutto l’atteggiamento mentale, con conseguenze sui criteri di giudizio e sulle scelte che si operano. In questo secondo caso includo sia le circostanze in cui la certezza di incontrare il virus è un fatto, come nei servizi medici di diagnosi e cura, sia le circostanze in cui la preoccupazione o lo stress mi possono indurre a ritenere certa una presenza che è solo probabile. Insomma, considero la preoccupazione, emotiva e razionale allo stesso tempo, di una persona che sa di appartenere a una categoria a rischio di conseguenze letali e, per sentirsi del tutto al sicuro e non rischiare nulla, vuol misurare la bontà delle misure preventive sulla certezza della presenza del virus.

Vediamo subito perché la distanza interpersonale di un metro da una persona affetta in questa ottica è una misura insoddisfacente. Si tratta del portato di una deduzione basata su studi condotti per misurare, in particolari condizioni sperimentali, il raggio coperto dalle goccioline microscopiche. La misura non considera la possibilità che il virus rimanga nell’aria, tanto più se è densa e umida in ambienti circoscritti, e si sposti anche per effetto dei movimenti delle persone, e non considera la persistenza nell’aria di uno spazio occupato in precedenza da una persona affetta. Se ragioniamo in questi termini, e non semplicemente nei termini della distanza lineare che può percorrere una gocciolina contenente il virus, comprendiamo che per ritenere efficace la misura dovremmo supporre che ciascuno inspiri solo l’aria del metro cubo che lo circonda. La profonda inspirazione che può precedere un sospiro, di quelli che automaticamente si compiono in stati di tensione, ansia, preoccupazione o torpore, produce un’aspirazione d’aria che può andare oltre il metro di distanza.

La possibilità che il virus viaggi nell’aria, implicitamente esclusa dagli assunti teorici su cui abbiamo basato il punto “1”, è stata provata da alcuni studi pubblicati già durante la fase acuta a Wuhan, dove si è proceduto immediatamente con potenti e imponenti misure di bonifica ambientale, ed è stata poi confermata successivamente, in particolare da un autorevole studio da noi recensito[2].

Un severo commento sul modo in cui è stata da alcuni intesa la misura della distanza interpersonale: “Un’interpretazione puerilmente rigida della distanza interpersonale di un metro, derivata da vecchi studi sul raggio coperto dalle goccioline di Flügge in particolari condizioni di prova, ha portato alla ridicola misura di prenotare in teatro i posti a poltrone alternate e a continuare ad ignorare il pericolo costituito dall’aria condizionata che può preservare il virus in sospensione, come abbiamo fatto notare e segnalato inascoltati per settimane”[3].

Ancora, sulla distanza sociale, è stato proposto un esempio da un collega con un video di una ragazza dai capelli lunghi che esulta durante una partita di calcio, facendo ruotare i capelli tinti dei colori della sua squadra del cuore e ricoperti di brillantini: dopo poco è inquadrato un signore a tre posti di distanza che si toglie i brillantini dagli occhi. E se quei capelli fossero stati contaminati da uno starnuto? Certo, si è considerata per altri microrganismi la possibilità dei capelli di estendere con il movimento l’area di trasmissione; d’altra parte è noto che i capelli possono ospitare agenti patogeni, per questo ordinariamente chirurghi e medici che devono agire in asepsi adoperano cuffie chirurgiche.

Un parametro generalmente trascurato è il tempo. Immaginiamo di essere entrati in un supermercato, protetti dai guanti e da una semplice mascherina chirurgica, e di aver individuato una persona senza mascherina che di tanto in tanto tossisce, anche se è a molti metri di distanza. La dimostrazione della possibilità del virus di diffondersi nell’aria e la sua persistenza sulle superfici ci preoccupano; per evitare ulteriori ansie possiamo rapidamente avviarci alle casse, abbreviando il tempo di permanenza. In tal modo, si riduce la quantità d’aria potenzialmente contaminata che può entrare nelle nostre vie respiratorie, naturalmente filtrata dalla mascherina.

Più in generale, si può considerare il tempo di esposizione, ossia la durata della permanenza in un luogo in cui si sospetti la presenza del virus, come un fattore che accresce la probabilità statistica di incontrarlo.

Proseguendo le riflessioni nell’ottica della certezza assoluta, le mascherine chirurgiche possono considerarsi del tutto inadeguate per proteggersi dal rischio di inalare SARS-CoV-2: le N95 e tutti gli altri tipi di mascherine specificamente concepite per impedire il passaggio dei virus sono indispensabili.

Le misure continuamente reiterate dalle emittenti televisive indicano l’uso di mascherine e guanti, ma degli occhi non si parla. La penetrazione attraverso la congiuntiva oculare e la mucosa palpebrale sembra certa, così come è stata provata la presenza del virus nelle lacrime delle persone affette da COVID-19. Dunque le lacrime, come altre secrezioni e le deiezioni, eliminano il virus in quantità sufficienti a propagare il contagio. Ne consegue che, se è presente una persona affetta nell’ambiente, dobbiamo proteggere anche gli occhi. Ma anche che, per l’assoluta certezza, gli speciali occhiali trasparenti che aderiscono alla superficie perioculare e possono impedire di diffondere il contagio con le secrezioni oculari dovrebbero portarli tutti.

Consideriamo ora la raccomandazione di lavare frequentemente le mani.

In proposito, ecco cosa è risultato da un’osservazione comportamentale condotta con un video su quattro medici in una pizzeria prima del lock down: uno si è stropicciato un occhio; un altro, mentre mangiava, ha portato il dito su una gengiva, subito scusandosi e ricorrendo a uno stuzzicadenti; il terzo ha introdotto furtivamente il mignolo nel meato acustico esterno per prurito. Con dita contaminate, almeno i primi due comportamenti sarebbero stati sufficienti a contagiarsi.

Lavarsi le mani con i detergenti usati nelle sale operatorie, adoperando lo spazzolino per l’igiene chirurgica, ripassandolo più volte accuratamente in tutte le direzioni sotto un getto d’acqua calda per 3-5 minuti è stato dimostrato che può eliminare tutti i batteri e anche qualche virus. Non che elimini tutti i virus; sempre ammesso che siano presenti sulla cute delle mani per contaminazione. Il gel disinfettante è batteriostatico, nemmeno battericida, e non ha di per sé efficacia virucida, ma sembra che, oltre ad agire sul materiale organico che circonda e preserva il virus, possa contribuire all’azione meccanica di asportazione e possa impedire ulteriori passaggi nell’aria (aerosolizzazione) del microrganismo.

Pur rimanendo valido il concetto che il virus non sopravvive a lungo nell’ambiente esterno[4], lo studio condotto da Neeltje van Doremalen e colleghi coordinati dal virologo Vincent Munster ha rilevato la presenza del virus in sospensione aerea (aerosol) fino a tre ore dopo l’emissione, su superfici di rame fino a quattro ore, sul cartone fino a 24 ore e, su plastica e acciaio inossidabile, fino a due o tre giorni dopo[5].

Prese insieme, tutte queste considerazioni, per raggiungere la certezza di evitare il contagio in un ambiente in cui sicuramente è presente il virus, non resta che adottare mezzi e strumenti di protezione impiegati dagli infettivologi. In proposito, si osservava nella già più volte citata recensione dell’11 aprile a proposito dell’Ospedale Cotugno, dove nessun medico si è contagiato: “Perché gli infettivologi di quel nosocomio di eccellenza hanno considerato fin dall’inizio la possibilità di altre vie di contagio, oltre l’inalazione diretta di goccioline emesse con tosse e starnuti da persone ammalate, e si sono protetti con tute, caschi e ogni altro dispositivo previsto dagli standard per le più insidiose e gravi possibilità di infezione. La loro scientifica prudenza li ha portati ad usare protocolli di vestizione e svestizione controllata: ciascun sanitario sia nel vestire tute e dispositivi protettivi sia nel dismetterli nella specifica camera dedicata e isolata, segue una procedura per passi definita ed è sempre controllato da un collega che ha la responsabilità di garantire che ogni passo sia eseguito correttamente”[6].

Per concludere questo secondo punto possiamo osservare che, non potendo raggiungere la certezza di non contagiarsi in presenza del virus senza una protezione infettivologica professionale, non resta che cercare la massima sicurezza riducendo al minimo le probabilità di avvicinamento a fonti di contagio e rimanendo in questi casi protetti, non solo dai presidi che materialmente ostacolano l’entrata dei virus, ma anche da queste conoscenze che possono ottimizzare i nostri comportamenti in funzione preventiva.

 

3. Cambiamenti nelle misure preventive per i risultati della ricerca. Si sente la mancanza nel nostro paese di quegli ospedali specializzati nel trattamento delle malattie infettive che erano stati in passato un fiore all’occhiello della nostra sanità, e che consentivano il trattamento in isolamento di un gran numero di pazienti contagiosi. La stessa cultura medica della prevenzione del contagio si è indebolita negli ultimi decenni.

Il confinamento a casa delle persone affette che non necessitano di cure ospedaliere è una misura di protezione della “società dei sani” ma, come si è già rilevato in altre circostanze, costringe al contagio i conviventi e, in alcuni casi, i vicini di casa. Pura follia rilevare la positività di un ospite di una residenza per anziani e rinviarlo, perché asintomatico, presso la sua dimora, dove potrà infettare tutti gli altri ospiti, in età ad altissimo rischio di morte.

Una domanda che riceviamo di frequente riguarda il perché di una mortalità così alta in Italia, tanto più alta, ad esempio, di quella rilevata in Germania e non spiegata dall’età media più avanzata dei colpiti. Non abbiamo ancora una risposta, nonostante siano stati avviati studi secondo varie ipotesi di lavoro, inclusa quella di varianti più aggressive sviluppate per mutazioni avvenute in Italia del virus arrivato dalla Germania. Una spiegazione di carattere clinico è stata proposta da un ex-primario di patologia toraco-polmonare del Forlanini: in Germania ricoverano in terapia intensiva anche prima di quando il paziente ne abbia bisogno assoluto, perché dispongono di 28.000 posti assistiti di intensiva-rianimazione; in Italia spesso sono rimasti fuori della terapia intensiva anche quelli che ne avevano assoluto bisogno, perché disponiamo solo di 5.000 posti. Se così fosse, vi graverebbe una pesante responsabilità morale su coloro che hanno deciso di ridurre i posti dei reparti di terapia intensiva per diminuire i costi delle “aziende ospedaliere”.

Consideriamo ora, brevemente, il mancato aggiornamento delle comunicazioni ai cittadini.

Le nuove conoscenze ottenute dalla ricerca su SARS-CoV-2 durante questa pandemia sono state di fondamentale importanza, ma la comunicazione mediatica non ha rispecchiato fedelmente i cambiamenti di atteggiamento suggeriti dalle nuove acquisizioni. Era necessario che si dicesse: scusate, ci siamo sbagliati nel dire (presuntivamente) che SARS-CoV-2 fosse diverso dal primo virus della SARS[7] e assomigliasse più al virus influenzale; ci siamo sbagliati nel dire che il contagio potesse essere solo interpersonale; ci siamo sbagliati nel considerare contagiose solo le persone clinicamente ammalate (criterio della temperatura); ci siamo sbagliati nel considerare contagiose le persone positive solo per due settimane dopo l’esordio clinico.

Comunicando con chiarezza e tempestività le correzioni indotte dalla conoscenza sperimentale, non si sarebbero create tutte quelle incertezze e quei dubbi che hanno assalito non solo tanti semplici cittadini relegati in casa davanti a schermi televisivi e di computer, ma anche tanti amministratori locali che hanno preso decisioni autonome, talvolta dettate da buon senso, talaltra da paura e in qualche caso, fortunatamente raro, da sfiduciata imprudenza.

Non tutti i risultati forniti dalla ricerca in questi giorni sono stati chiari e decisivi. Un esempio importante è quello di uno studio condotto da ricercatori di autorevolissimi istituti internazionali per lo studio della patologia infettiva degli animali e che, dalla pubblicazione preliminare avvenuta l’8 di aprile, ci ha tenuti impegnati in discussioni e dibattiti sull’opportunità di diffonderne i risultati. Jianzhong Shi e colleghi, che stanno studiando l’ospite intermedio fra pipistrelli e uomo di SARS-CoV-2, hanno rilevato che il nuovo coronavirus si replica scarsamente nel cane, nel maiale, nelle anatre e nel pollame, ma che il gatto, al pari del furetto, può infettarsi e trasmettere il virus; in particolare, è risultato che il felino può contagiarsi per via aerea.

I ricercatori, per l’aggressività dei gatti, che a zampate impedivano l’effettuazione dei prelievi mediante tampone, hanno deciso di rinunciare allo studio del materiale proveniente dalle mucose accessibili delle prime vie aeree, limitandosi a raccogliere le feci per lo studio delle cellule intestinali, che peraltro ritenevano indenni. Con sorpresa, hanno trovato un’impressionante densità di SARS-CoV-2 nelle cellule dell’intestino e hanno verificato l’abbondante eliminazione del virus con le feci[8]. I limiti dello studio sono dati dal basso numero di esemplari osservati e dalla possibilità di una diversa risposta immunologica da parte di razze diverse di Felis silvestris catus[9].

Le indagini sull’animale ospite intermedio proseguono. Come è noto, le specie ittiche dei mercati cinesi, insieme con tanti altri animali ammassati in condizioni di promiscuità e scarsa igiene in quelle popolate sedi di vendita alimentare, sono stati sospettati; sospetti anche i serpenti adoperati nella medicina popolare cinese e praticamente tutti gli animali che in quella realtà possono entrare in contatto con i pipistrelli, ossia gli ospiti per eccellenza dei coronavirus, storicamente studiati come fonte di questo genere virale. Sono attivi per questi studi anche i laboratori delle più prestigiose istituzioni di ricerca veterinaria, primo fra tutti lo State Key Laboratory of Veterinary Biotechnology, dell’Istituto di Ricerca Veterinaria di Harbin, dell’Accademia Cinese delle Scienze dell’Agricoltura, in collaborazione col Laboratorio Nazionale per il Controllo e la Prevenzione della Patologia Animale e l’Istituto Nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie Virali di Pechino, seguiti dall’NIH negli USA e dai maggiori laboratori di ricerca virologica di tutto il mondo.

Tuttavia, l’origine naturale del nuovo coronavirus è stata messa in dubbio da studiosi di genetica virale in Francia, Stati Uniti e, successivamente, in altri paesi. Un posto speciale spetta in questo campo al virologo, Premio Nobel per gli studi sull’HIV, Luc Montagnier.

Montagnier ha identificato sequenze di basi apparentemente ingegnerizzate, concentrate nello spazio di meno di 1000 nucleotidi sui 30.000 totali dell’RNA del virus, e le ha studiate, rilevando una notevole somiglianza con un tratto di sequenza dell’HIV. Su questa base, ha escluso che il virus possa essere di origine naturale[10] e ha ipotizzato che sia il prodotto di una manipolazione finalizzata all’ottenimento di un vaccino anti-AIDS. La sequenza artificiale specificherebbe un segmento di una proteina che viene riconosciuta dal sistema immunitario umano come HIV e, dunque, potrebbe indurre la produzione di Ig anti-HIV. La brevità delle sequenze estranee ai coronavirus induce la maggior parte dei biologi molecolari a ritenere altamente improbabile che costituiscano un ricombinante, e possibile che derivino da mutazioni naturali accumulate nel tempo.

Ma questo non convince Montagnier, che si chiede: come mai queste mutazioni casuali esprimono proprio un tratto di codice riconoscibile come quello di una proteina dell’HIV? Un precedente studio indiano che era giunto a conclusioni simili è stato poi ritirato dalla rivista, ufficialmente in quanto non soddisfaceva i requisiti di scientificità, ma secondo Montagnier per pressioni esercitate sulla commissione dei referee. Il Premio Nobel sfida i suoi detrattori sostenendo che il tratto artificiale, in quanto tale, va incontro a mutazioni, e in particolare delezioni, più frequenti del resto dell’RNA, e dunque andrà incontro ad una progressiva perdita di potere patogeno molto maggiore di quella che avrebbe un mutante naturale, sostenuto da un armonico sviluppo assente nel virus artificiale. A Seattle sono già state osservate mutazioni che hanno determinato una minore aggressività di SARS-CoV-2.

Per verificare indirettamente se la sua ipotesi sia corretta, si dovrebbero studiare le sequenze RNA dei SARS-CoV-2 isolati a campione nei pazienti di tutto il mondo e calcolare se realmente esista un tasso di mutazioni più elevato della media nella sede delle sostituzioni di nucleotidi e se tali mutazioni vadano di pari passo con la riduzione del potere patogeno del virus.

In realtà, una parte delle sequenze nucleotidiche identificate da Montagnier e Perez, considerate secondo i criteri correnti della biologia molecolare e non seguendo il loro metodo matematico, non risultano “criticamente diverse”, ma sono parte di successioni che si possono trovare in molti altri virus e sono simili a quelle riscontrate nel DNA di batteri e organismi superiori. La pessima fama che accompagna Montagnier da quando un documento firmato da oltre 100 accademici francesi[11] ha preso le distanze da lui per le affermazioni erronee sui vaccini, il suo sostegno ideologico a idee prive di fondamento scientifico e ancor più il discredito in cui è piombato presso la comunità neuroscientifica da quando ha parlato di eziologia dell’autismo, mostrando una totale ignoranza dei processi di sviluppo del sistema nervoso centrale e della ricerca sulla loro patologia, ha indotto molti ricercatori a liquidare la sua ipotesi come “una boutade di quelle che fa da quando il Nobel gli ha dato alla testa”.

L’opinione di chi scrive e dei soci della nostra società scientifica non si discosta molto da quella della massima parte dei biologi molecolari; tuttavia, si è scelto, indipendentemente dalle conclusioni cui giunge, di non ignorare del tutto le comunicazioni di Montagnier alla comunità scientifica per due ragioni: 1) il metodo di calcolo impiegato per l’analisi delle basi è correntemente impiegato e considerato affidabile per altri studi; 2) il paragone per il giudizio sulla possibilità non casuale delle piccole sequenze individuate dovrebbe essere ristretto ai virus a RNA e non esteso alle sequenze di DNA di altri organismi.

Intanto, altri progressi nello studio dei meccanismi dell’infezione da coronavirus sono stati compiuti.

Le cellule umane, come quelle delle altre specie soggette a infezione, sono dotate di specifici sensori per il rilievo di virus con capacità invasiva. I coronavirus, come altre specie virali, hanno evoluto una risposta molecolare che consente loro di eludere il riconoscimento. In particolare, esprimono proteine capaci di interferire con le vie di rilevazione del sistema immunitario dell’organismo infettato: alcuni studi hanno accertato che una endoribonucleasi (EndoU) dei coronavirus specificamente ritarda l’attivazione del sistema di sensori delle cellule dell’organismo ospitante.

EndoU facilita l’elusione del riconoscimento da parte del recettore MDA5 (HPRR, da host pattern recognition receptor) ma lo specifico bersaglio molecolare dell’attività di EndoU fino ad oggi è rimasto sconosciuto. Matthew Hackbart, Xufang Deng e Susan C. Baker hanno scoperto che EndoU scinde le 5-poliuridine dall’RNA virale di senso negativo, definito PUN RNA, che è il prodotto della sintesi di RNA con poli-A per template. In altri termini, l’endonucleasi scinde una sequenza di poliuridina virale che, se integra, viene riconosciuta dai sensori immunitari della cellula ospite, precludendo l’infezione. Dunque, inattivando EndoU si può consentire all’organismo di riconoscere ed eliminare i virus. I ricercatori hanno inibito con successo l’endonucleasi, ma lo sviluppo di un farmaco non tossico ed efficace in tal senso richiederà tempi lunghi[12].

Nel mese di marzo abbiamo comunicato l’ottenimento dell’anticorpo monoclonale neutralizzante SARS-CoV-2 da parte di Frank Grosveld e colleghi[13] e del primo vaccino, in preparazione da parte di Sarah Gilbert, Andrew Pollard e colleghi dell’Università di Oxford[14], che hanno avuto per prima volontaria all’inizio della sperimentazione umana Jennifer Haller. Ora siamo all’avvio di questa fase anche in Italia, dove, anche per quanto riguarda i test sierologici, cominciamo un po’ dopo coloro che sono partiti per primi.

In Germania, Olanda e vari stati degli USA sono stati attuati programmi di rilevazione della presenza di anticorpi anti-SARS-CoV-2 nella popolazione generale. Il 9 aprile Hendrick Streeck, virologo dell’Università di Bonn, ha comunicato i risultati preliminari[15] di una cittadina di 12.000 abitanti nella zona rossa di Heinsberg, duramente colpita dal virus: sui 500 volontari testati solo il 14% possedeva anticorpi anti-SARS-CoV-2 e si è calcolato che il tasso di mortalità era dello 0.37% delle persone infettate, ossia quasi quattro volte quello dell’influenza. Il test adoperato ha rivelato alle verifiche più del 99% della specificità. L’analogo test adoperato in uno studio danese ha fatto riscontrare invece 3 falsi positivi su 82 volontari, con una specificità del 96%.

Complessivamente, tutti gli studi Americani ed Europei condotti finora hanno rilevato percentuali che variano dal 2% al 30% di persone infettate dal virus in una popolazione. Secondo queste stime, i casi di COVID-19, come frazione del totale degli infetti, dovrebbero rappresentare una quota molto più bassa di quanto previsto dalle stime di inizio pandemia. Questi dati confermerebbero la tesi sostenuta da alcuni – e noi fra questi – di un numero notevolmente più alto di ammalati lievi, rispetto a quelli gravi, responsabile dell’impressionante diffusione del contagio in tutto il mondo.

Varie obiezioni e critiche sono state mosse a questi dati, in particolare è stato osservato che sono stati comunicati oralmente a giornalisti scientifici o ricercatori addetti alla comunicazione, ma non sono stati ancora riportati in testi sottoposti a peer-review da parte di referee-scientists.

Attendendo con fiducia gli sviluppi della ricerca, auguriamo a tutta l’umanità i tempi più brevi possibili per la fine di quest’incubo.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-25 aprile 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 



[1] Naturalmente, sono diverse le misure protettive per il personale sanitario che deve entrare in contatto con pazienti affetti da COVID-19; misure codificate e adottate da tempo per le gravi malattie contagiose.

[2] Note e Notizie 11-04-20 Trasmissibilità aerea e persistenza del nuovo coronavirus sulle superfici.

[3] Si veda in Note e Notizie 11-04-20 Trasmissibilità aerea e persistenza del nuovo coronavirus sulle superfici. Rimane difficile condurre una sperimentazione decisiva sul ruolo dell’aria condizionata nella diffusione del contagio; tuttavia, le prove indirette della sua pericolosità sembrano molto convincenti.

 

[4] Questo può voler dire che dopo 4 giorni un luogo di degenza per COVID-19, anche se non sanificato (ma non visitato da alcun altro positivo al test), non ci si può più contagiare. All’inizio dell’epidemia, prima degli studi specifici, in via presuntiva o deduttiva, molti virologi ritenevano che l’integrità del virus fuori dal corpo dell’ammalato durasse minuti o al massimo un’ora.

[5] Note e Notizie 11-04-20 Trasmissibilità aerea e persistenza del nuovo coronavirus sulle superfici.

[6] Note e Notizie 11-04-20 Trasmissibilità aerea e persistenza del nuovo coronavirus sulle superfici.

[7] È stato infatti dimostrato un comportamento del tutto simile dei due virus.

[8] Shi J., et al. Susceptibility of ferrets, cats, dogs, and other domesticated animals to SARS-coronavirus-2. Science – Epub ahead of print doi: 10.1126/science.abb7015, 08 Apr, 2020.

[9] Anche se sono state descritte oltre 50 razze del felino, le differenze immunologiche legate alla razza potrebbero non essere rilevanti per la permissività all’infezione da SARS-CoV-2.

[10] La provenienza dal mercato del pesce di Wuhan fatta circolare dai media cinesi in tutto il mondo sarebbe, secondo i ricercatori del laboratorio di Montagnier, un depistaggio per coprire la grave negligenza che avrebbe causato la fuoriuscita da un laboratorio cinese di questo virus manipolato.

[11] Sostanzialmente come facemmo in Italia per Giulio Tarro.

[12] Note e Notizie 28-03-20 Scoperto il meccanismo dei coronavirus per evadere la sorveglianza immunitaria.

[13] Note e Notizie 21-03-20 Notule.

[14] Note e Notizie 28-03-20 Notule (v. Candidato vaccino contro SARS-CoV-2 realizzato dal gruppo del vaccino anti-MERS). Del gruppo di lavoro fa parte anche Giacomo Gorini, immunologo del Jenner Institute.

[15] V. Gretchen Vogel, Science (Sciencemag Apr 21, 2020, 6:30 PM).